Rally o F1? Qual è lo sport più difficile? L’eterno dilemma
Rally o F1? A fine 2009, Kimi Raikkonen ha fatto outing: quel mondo non gli piaceva più, mentre i rally lo tentavano. Un anno di campionato nello junior team della Citroën, un decimo posto finale, dodici presenze su tredici al volante della C4 WRC, miglior risultato il 5º posto in Turchia. Tanti incidenti, anche da lasciarci l’osso del collo. A 31 anni era sicuro: ”Certo che ho pensato a tornare in Formula 1, ma non ne sento la mancanza. L’esperienza mi ha reso un pilota migliore, quindi resto qui”.
Kimi Raikkonen dice che il rally è molto più complicato della Formula 1: “Se guidi su certe strade, allora puoi guidare ovunque”. Il sasso è lanciato. Non è una provocazione, Kimi non ne è capace: in tutta la carriera ha espresso pubblicamente non più di due o tre opinioni, e neppure tanto elaborate. Tipo: “Aspettiamo e vediamo” o “Se tutto va bene faremo una buona gara”. Prendiamola come un’opinione di chi ha provato entrambe le discipline: in F1 è stato prima un enfant prodige (con Sauber e McLaren), poi un campione del mondo (al debutto con la Ferrari nel 2007).
A fine 2009 ha fatto outing: quel mondo non gli piaceva più, mentre i rally lo tentavano. Un anno di campionato nello junior team della Citroën, un decimo posto finale, dodici presenze su tredici al volante della C4 WRC, miglior risultato il 5º posto in Turchia. Tanti incidenti, anche da lasciarci l’osso del collo. A 31 anni era sicuro: “Certo che ho pensato a tornare in Formula 1, ma non ne sento la mancanza. L’esperienza mi ha reso un pilota migliore, quindi resto qui”.
Pilota migliore. Più forte di uno di F1? Sembrerebbe di sì, a prestar fede a Iceman, secondo driver della storia (dopo l’argentino Carlos Reutemann, altro ex ferrarista) ad aver preso punti iridati nelle due discipline motoristiche. Un altro fan del “fuoripista” è Robert Kubica, polacco sotto contratto con la Renault, che nel tempo libero gareggia qua e là (lo vedremo al Montecarlo, prova di apertura del campionato).
Il dibattito è antico: serve più talento a 300 chilometri l’ora su una pista d’asfalto liscia come un tavolo da biliardo, protetta da via di fuga e barriere di sicurezza, smanettando su un volante stile playstation, lungo un circuito conosciuto a memoria, oppure su strade strette, di fango, terra o neve indifferentemente, tra un guard rail e un muro? Prima di essere un “pentito” della pista, Raikkonen un giorno dichiarò: “Andare a 300 all’ora non è mai facile”.
Detto da uno di poche parole e rare emozioni (mezz’ora prima del suo debutto in Formula 1 il suo ingegnere l’andò a chiamare e lo trovò addormentato) esprime il brivido della competizione estrema. La F1 è lo stato dell’arte, il vertice della tecnologia motoristica e aerodinamica. Come valore aggiunto, è una disciplina televisiva. Il contorno di protezioni serve a raggiungere il limite delle prestazioni. Michael Schumacher a questo guscio rassicurante non ha mai voluto rinunciare: “Se sbagli in un circuito, hai la via di fuga per fermarti. Se sbagli su una strada, magari perché c’è una buca che non si vede, rischi di sbattere contro un albero. In quelle condizioni è impossibile tirare al massimo”.
Schumi (quello vero, quello che si ritirò nel 2006) aveva bisogno che tutto il mondo intorno fosse conosciuto per potersi concentrare sulla guida e arrivare dove nessuno riusciva. Il rally è altra roba: tecnologia e improvvisazione, talento e follia. “Se senti l’auto perfettamente sotto controllo – spiegava Colin McRae, indimenticato campione morto in elicottero – significa che non stai andando abbastanza forte”.
Poi c’è l’incoscienza dei copiloti, di cui ci si ricorda soltanto quando danno un’informazione sbagliata e così causano un incidente. Quello di Markku Alen, tale Ilkka Kiwimaki, possedeva uno spiccato senso dell’umorismo: “Non sono il suo navigatore, è lui che è il mio autista”. La TV non può che riprendere qualche spezzone: ecco il grosso limite. Poca visibilità è uguale a meno spettatori, meno sponsor, meno soldi.
Il rally più pazzo è la Dakar. Lo era quando partiva da Parigi e arrivava in Senegal, lo rimane ora che è fuggita in Sud America per evitare il terrorismo e il rischio di attentati. Una corsa amata e odiata, per il suo fascino e per le vittime che ha lasciato tra concorrenti e pubblico. “Quando correvamo in Africa ci accusavano di essere dei ricchi che andavano a mostrare i loro soldi a chi non li ha – sostiene David Castera, direttore sportivo dell’evento –. Eppure noi cercavamo di lavorare con gli africani e facevamo conoscere il loro Paese nel mondo”.