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Pirelli: segreti e retroscena delle gomme dai rally alla F1

La Lancia Stratos fu ammessa originariamente nel Gruppo 5

Estratto dalla monografia dell’AISA, la numero 68: “Dalle corse alla serie, l’esperienza Pirelli nelle competizioni”. L’intervento dell’ingegnere Mario Mezzanotte porta la data del 25 febbraio 2006. Nessuno è più qualificato per parlare della storia e dello sviluppo dei pneumatici Pirelli dell’ing. Mezzanotte, che è stato il personaggio più rappresentativo della Marca negli anni ‘70/’90. Mai come in quegli anni il pneumatico ha dimostrato di essere l’elemento decisivo per la competitività nelle corse riuscendo a fornire alla macchina tutta una serie di contributi tecnici impensabili fino a quel momento, come risultato di un sempre più stretto coinvolgimento del fabbricante nell’evoluzione della tecnica automobilistica.

di Mario Mezzanotte

La prima vittoria della Pirelli nel campo delle attività sportive automobilistiche risale al lontano 1907, quando il Principe Scipione Borghese insieme con il giornalista “co-driver” Luigi Barzini furono i primi a tagliare il traguardo nella epica e leggendaria Pechino – Parigi con la loro Itala. Da allora, la Pirelli fu sempre più coinvolta con i famosi pneumatici “Stella Bianca” e “Stelvio Corsa” in una serie incredibile di successi negli anni Venti sulle Fiat di Nazzaro, Bordino e Salamano, poi sulle Alfa Romeo di Campari, Antonio Ascari, Brilli Peri, Fagioli, Varzi, Nuvolari, Pintacuda e Farina, sulle Maserati di Villoresi, Moss e Fangio, quindi sulle Ferrari di Gonzales, Alberto Ascari, Hawthorn, Fangio, Taruffi.

Un primo caso-gomme si è verificato nel 1951 quando la Pirelli era l’unico fornitore dei pneumatici. Siamo a Barcellona il 28 ottobre, ultima gara della stagione del secondo campionato mondiale di F1. Fangio si presenta in vetta alla classifica con l’Alfetta 159 con 28 punti, davanti alle Ferrari 375 di Ascari (25) e di Gonzales (21), ancora in gioco per il titolo. Il regolamento di allora prevedeva 8 punti al vincitore, 6 al secondo, 4 al terzo e via a scalare fino al sesto classificato. Però si teneva conto solo dei quattro migliori risultati della stagione. Ascari aveva due vittorie e Fangio solo una, il che lo avrebbe sfavorito nel caso di un successo di Ascari.

Per l’Alfa Romeo era l’ultima gara della sua storia: a fine stagione la squadra del Portello si sarebbe ritirata. La rivalità Alfa Romeo/Ferrari divideva i tifosi e c’era grande attenzione in Italia per l’evento. Nelle qualifiche Ascari va subito in pole con 2 secondi di vantaggio su Fangio. Ma la gara consegna il successo a Fangio insieme al Titolo Mondiale.

Era accaduto che l’ing. Colombo dell’Alfa Romeo aveva richiesto pneumatici di misura maggiore di quelli della Ferrari, col risultato che Fangio rientrò a cambiare i pneumatici solo al 15° giro mentre Ascari dovette rientrare già al 9° e Taruffi al 6°; così la Ferrari terminò al secondo posto con Gonzales e al quarto con Ascari, compromettendo il campionato.

La Pirelli restò in F1 fino al 1956, anno in cui decise di ritirarsi dalle competizioni su pista. L’ultimo fu il GP d’Italia del 1957 a Monza, vinto da Stirling Moss con pneumatici Stelvio Corsa residuati da magazzino. Da quell’epoca, la Pirelli concentrò le sue risorse nello sviluppo dei pneumatici radiali (che allora erano alla loro prima infanzia) per il normale impiego stradale.

A partire dalla fine degli anni ’60, la Pirelli entrò nel campo dei rally conquistando spettacolari successi con i pneumatici radiali e ancora oggi è protagonista in questo campo, avendo equipaggiato: Alfa Romeo, BMW, Citroen, Fiat, Ford, Lancia, Opel, Mitsubishi, Peugeot, Subaru, Toyota. Nei numerosi Campionati Mondiali Rally conquistati dalla Pirelli, forse il record dei successi li ha ottenuti Sandro Munari che, tra il 1972 e il 1977, ha vinto per quattro volte il Rally di Montecarlo, una volta con la Lancia Fulvia HF e le altre tre con la Lancia Stratos.

Quest’ultima era una vettura ben diversa dalla Fulvia: motore centrale, trazione posteriore, parecchi cavalli da gestire, insomma si trattava di un mezzo appositamente progettato per le competizioni e non di un’auto di serie preparata. Non a caso, i problemi si sono subito presentati; non era facile individuare la copertura giusta per quella vettura, soprattutto in quegli anni, quando non esisteva certamente la tecnologia di oggi applicata alla progettazione dei pneumatici.

Giovanni Alberti al Rally 4 Regioni 1976
Giovanni Alberti al Rally 4 Regioni 1976, foto Rallymania forum

Così succede che nell’anno 1974, verso le tre di un mattino, il sottoscritto riceve una telefonata dai toni drammatici. Dall’altro capo del filo giunge la voce concitata di Sandro Munari (penso ancora con in mano il casco) seriamente preoccupato perché, durante le prove del Rally allora chiamato “delle Quattro Regioni”, la Stratos aveva distrutto parecchi set di pneumatici dopo appena 10 km. di strada, mentre le prove cronometrate erano lunghe 40/50 km. Tragedia! Dopo prove e prove, non c’era nessun pneumatico in grado di reggere la cattiveria del V6 Dino che equipaggiava la bella coupè di Bertone.

Alla Lancia erano nel panico perché il Rally si sarebbe svolto solo dopo una settimana. Si tentò allora di adottare pneumatici da corsa tipo slick, ma senza successo perché, a quell’epoca, essi erano di costruzione a tele incrociate e quindi con una alta rigidità dinamica che sullo sconnesso dava luogo ad una inaccettabile instabilità della vettura. Che fare?

Risultò evidente che era necessario dotare la Stratos di coperture aventi bassa rigidità dinamica e con battistrada più largo per garantire la massima aderenza e sopportare la notevole potenza erogata dal motore. Ma a quell’epoca non esistevano pneumatici radiali dalle dimensioni tanto generose, tenendo ben presente che era indispensabile rispettare il diametro esterno in funzione dei passa ruota della vettura.

Alla Pirelli, anche se non si partecipava da diversi anni alle competizioni su pista, si era sempre cercato, magari in modo poco palese, di seguire lo sviluppo dei pneumatici slick, che già erano piuttosto larghi e ribassati. Però, come già detto, erano di costruzione a tele incrociate perché esisteva la convinzione generalizzata che un pneumatico radiale non avrebbe mai potuto avere le caratteristiche per soddisfare i requisiti richiesti ad un pneumatico da competizione su pista. In altre parole, a quei tempi un pneumatico racing doveva essere costruito, senza ombra di dubbio, con la carcassa a tele incrociate.

Pirelli: dalla strada alla pista e quell'amore per i rally
Pirelli PZero

Fu così che, andando in controtendenza, si pensò di realizzare un pneumatico a carcassa radiale utilizzando uno stampo per pneumatici slick opportunamente modificato. Detto fatto. Così la Stratos è passata dai pneumatici 205/70-14 ai generosi 225/50-15 radiali a cintura metallica. La settimana successiva la Lancia Stratos con Sandro Munari vince il Rally delle Quattro Regioni con un vantaggio di circa un quarto d’ora sul secondo classificato.

La storia non finisce qui perché la Porsche si accorge di quanto avvenuto e contatta la nostra consorella tedesca. Così il sottoscritto viene spedito a Stoccarda con il nuovo pneumatico ribassato da provare su un’auto per quei tempi rivoluzionaria: la 911 Turbo. Una vettura stradale ma non alla portata di tutti, per la quale la Porsche stava cercando un pneumatico adatto.

Dopo una settimana di prove gli ingegneri tedeschi sono così entusiasti che fanno la richiesta per la fornitura di primo equipaggiamento per il 100% della produzione di questa vettura. Era nato il pneumatico ribassato P7, un nome diventato un autentico mito.

Però l’avventura non era finita, perché alla Pirelli succede qualcosa di inaspettato. L’azienda si trova a commercializzare un prodotto talmente innovativo da ignorare quale impatto avrebbe avuto sul mercato. Pertanto si decide di differenziare il P7 dal resto della produzione, che non possedeva gli stessi contenuti tecnici ed estetici, offrendolo ad un prezzo piuttosto elevato.

Fra le ragioni che determinarono questa politica commerciale c’era la grave crisi energetica di quegli anni, quando addirittura sembrava che l’era del petrolio fosse agli sgoccioli….. Sono gli anni delle domeniche senza le auto per il risparmio energetico. Alla Pirelli l’idea di commercializzare un prodotto di alte prestazioni per vetture sportive sembrava un controsenso, viste le tensioni sociali di quel periodo. Bene, nonostante il momento storico certamente non favorevole e il prezzo esorbitante, il nuovo prodotto ottiene un successo senza precedenti.

Il ritorno in pista di Pirelli

Tornando alle competizioni su pista, passarono oltre due decenni dall’anno del ritiro (1956) prima che la Pirelli decidesse di tornare ufficialmente a questo tipo di attività, nella quale introdusse per prima i pneumatici radiali in Formula 2, dopo le prime esperienze della Michelin in Formula 1 del 1978. Fu Eddie Cheever nel 1979, con l’Osella BMW equipaggiata con i radiali Pirelli, a vincere sul bagnato la gara di apertura del Campionato Europeo di Formula 2 a Silverstone, dopo aver conquistato anche la pole position sull’asciutto. Nello stesso anno le vetture Sport Lancia Beta Monte Carlo vinsero il Campionato Mondiale Marche della classe 2 litri.

Nell’anno successivo (1980), Brian Henton conquistò il Campionato Europeo di Formula 2 con la Toleman TG2/80 progettata da Rory Byrne con pneumatici Pirelli P7 radiali. Il 1981 segna l’anno in cui la Pirelli decide di rientrare in Formula 1 equipaggiando la Toleman con motore turbo di Brian Hart.

La Toleman F1 non prese punti anche per l’inaffidabilità del motore e per l’eccessivo peso del telaio. Ma già l’anno successivo con la nuova vettura, sempre progettata da Rory Byrne, riuscì a portarsi con Derek Warwick al secondo posto durante il G.P. di Inghilterra a Brands Hatch con uno stupendo sorpasso alla Ferrari di Pironi, prima della rottura del differenziale che la costrinse al ritiro. Nello stesso anno i pneumatici Pirelli di F1 equipaggiarono anche Arrows, Osella e Fittipaldi.

Anche i team di grande nome cominciarono a impiegare i pneumatici radiali Pirelli: la Lotus nel 1983 e quindi la Brabham con cui Nelson Piquet vinse il G.P. di Francia al Paul Ricard nel 1985. Fu la prima vittoria dei pneumatici Pirelli in un GP di F1 dopo 28 anni da quella di Stirling Moss a Monza. L’anno successivo, la Pirelli decide il ritiro dal suo secondo coinvolgimento nel mondo dei G.P. e ciò si verifica prima del G.P. del Messico che segnò la vittoria di Gerhard Berger con la Benetton disegnata da Rory Byrne.

Fu invece un anno disastroso per la Brabham, che sembrava aver perso tutto il suo smalto dopo l’incidente che costò la vita a Elio De Angelis durante le prove al Paul Ricard, dovuto alla perdita dell’alettone posteriore della vettura; la macchina – chiamata scherzosamente “sogliola”- era stata progettata da Gordon Murray ed era equipaggiata da un inedito motore BMW turbo a quattro cilindri montato inclinato di 72° per abbassare il baricentro di tutto il sistema. La monoposto ebbe però anche diversi problemi, soprattutto di surriscaldamento del gruppo propulsore e praticamente non riuscì a finire mai una gara.

Il G.P. di Francia vinto da Piquet nel 1985 e quello del Messico vinto da Berger nel 1986 furono entrambi contraddistinti dal fatto che i piloti avevano potuto evitare il pit-stop per il cambio dei pneumatici (in quegli anni il regolamento vietava fermarsi per il rifornimento di carburante che doveva essere imbarcato in quantità prestabilita prima della partenza) mentre gli altri concorrenti dovettero fare una o più soste ai box per sostituire le gomme.

In questi due gran premi i radiali Pirelli furono determinanti per il conseguimento della vittoria, senza ovviamente togliere nulla al merito dei piloti, bravissimi anzi a capire che avrebbero potuto finire la gara senza doversi fermare per cambiare le coperture. Era quindi evidente che uno dei requisiti per il successo era quello di produrre un pneumatico capace di percorrere i 300 km di un GP sopportando i 1000 HP dei motori turbo, garantendo prestazioni costanti nonostante il peso di tutto il carburante imbarcato per finire la gara.

Il tema tecnico si poteva riassumere in tre parole: leggerezza, prestazioni, durata. Questo concetto è stato poi applicato ai pneumatici stradali per l’equipaggiamento di due vetture destinate a passare alla storia: la Ferrari F40 e la Lancia Delta S4.

Nasce quindi il P Zero che ancora oggi rappresenta uno dei pneumatici “high performance” più ambiti dagli appassionati e che ha rappresentato dal 1986 il capostipite dei pneumatici di alte prestazioni con battistrada asimmetrico, capace di ottimizzare le caratteristiche di performance sia su asciutto che sul bagnato evitando l’aquaplaning, ma anche di confort e silenziosità.

Perché è stato denominato P Zero? La P sta per Pirelli e Zero significa l’assoluto, ovvero la perfezione del pneumatico. Beh, se ancora oggi questo prodotto, che ovviamente da allora ha subito varie evoluzioni, rappresenta il massimo in fatto di pneumatici, certamente non è casuale; voglio ricordare a questo proposito uno slogan della Pirelli che tenevo sempre in mente durante la mia attività: “non si vince mai per caso”.

Evoluzione della progettazione delle vetture e dei pneumatici di F1

Ricordiamo quali sono i fattori che influenzano la progettazione di una monoposto di F1:

  • i regolamenti tecnici e quelli sportivi che ne definiscono l’impiego in pista
  • la disponibilità e lo sviluppo di nuovi materiali, tecnologie e metodologie di lavoro
  • le diverse tipologie dei circuiti dove corrono le vetture. Facciamo un breve riassunto dei cambiamenti che hanno caratterizzato questi fattori.

Regolamenti

Nel corso degli anni, la FIA, l’autorità sportiva che governa la Formula 1, ha cambiato i regolamenti con il primario obiettivo di migliorare la sicurezza dei piloti e degli spettatori. Ciò è stato ottenuto attraverso le seguenti modifiche:

  • limitazione delle dimensioni dei pneumatici
  • progressive restrizioni nelle dimensioni delle carrozzerie che quindi hanno limitato le prestazioni aerodinamiche
  • limitazione della potenza del motore
  • limitazione dell’impiego delle tecnologie che contribuiscono all’aumento delle prestazioni, soprattutto in curva
  • definizione di una serie di “crash-test” cui ogni tipo di telaio deve essere sottoposto prima di gareggiare.

Sviluppo tecnico

Come molti sport professionistici, anche la F1 ha goduto di un grande aumento delle entrate negli ultimi decenni. Per darvi un esempio, il budget di un top team oggi è circa cento volte maggiore di quello che aveva la Toleman nel 1981, l’anno del ritorno della Pirelli nel mondo

dei GP con questa scuderia. Conseguentemente le squadre hanno incrementato il loro potenziale in termini di forza lavoro per individuare nuove tecnologie e sviluppare quelle esistenti al fine di migliorare le prestazioni.

Tanto per darvi un’altra cifra esemplificativa, l’organico di una scuderia come la Ferrari o la McLaren è di circa venti volte maggiore di quello che aveva la Toleman nel 1981.

Circuiti

Per ridurre le velocità massime, soprattutto al termine dei rettilinei e nelle curve veloci, che stavano diventando pericolosamente elevate, molti tracciati sono stati modificati con l’aggiunta di chicane in modo da accorciare significativamente i rettilinei e diminuire il raggio delle curve. Oggi, tutti i nuovi circuiti di F1 sono progettati tenendo ben presente le prestazioni di una monoposto.

Su quei circuiti che non hanno subito dei cambiamenti drastici, come Monza e Montecarlo, la velocità media di percorrenza è aumentata di circa il 20 per cento. La velocità massima è passata da 320 km/h nel 1981 a 370 km/h.

Un tale aumento delle velocità, nonostante i numerosi cambiamenti regolamentari introdotti nel corso degli anni, dà una certa percezione di quale sia il reale potenziale sviluppato.

Se prendiamo in considerazione una monoposto di Formula 1, i fattori che contribuiscono alle prestazioni sono, in ordine di importanza, i seguenti :

  • pneumatici
  • aerodinamica
  • motore
  • telaio/trasmissione/sospensioni.

Quanto sopra vale per tutti i veicoli destinati alle competizioni su pista o su strada ma anche per le “supercar” ad alte prestazioni per impiego stradale.

Vediamo di riassumere, molto sommariamente, i principali sviluppi dei suddetti fattori negli ultimi decenni.

Pneumatici

Negli ultimi 25 anni, ci sono state in Formula 1 quattro diverse case costruttrici di pneumatici e precisamente, in ordine alfabetico: Bridgestone, Goodyear, Michelin e Pirelli, che naturalmente hanno fornito un supporto tecnico alle rispettive squadre, al fine di massimizzare le prestazioni delle vetture che impiegavano il loro prodotto.

Ci sono stati anche anni nei quali esisteva un solo fornitore, il che rendeva più lento o quasi nullo lo sviluppo delle coperture; ma in regime di concorrenza c’è sempre stata una accelerazione nello sviluppo e, conseguentemente, delle prestazioni delle monoposto.

Intorno agli anni 80, si è verificata la transizione dai pneumatici con tele di carcassa incrociate a quelli radiali; la prima è stata la Michelin con la Ferrari nel 1978. La Pirelli subentrò, come detto in precedenza, con i radiali in Formula 2 nel 1979 e in Formula 1 nel 1981. Nello stesso anno la Michelin si ritirò dai GP, mentre la Goodyear continuò fino al 1986 con i pneumatici a tele incrociate.

Da allora, i pneumatici radiali hanno subito un continuo sviluppo utilizzando polimeri e materiali sempre più sofisticati sia per le mescole (per massimizzare il grip con temperature di funzionamento ben oltre i 100°) che per la costruzione di cinture e di carcasse (per ottimizzare la rigidità dinamica e soprattutto lo smorzamento delle sollecitazioni create dalle asperità stradali).

Questi avanzamenti sono stati possibili anche grazie ad una maggiore comprensione della complessa interazione tra vettura e pneumatici e, elemento ancora più importante, dell’influenza del tipo di asfalto (che in genere è quello impiegato per la costruzione delle autostrade), cioè della temperatura e della ruvidezza della superficie della pista sull’impronta del pneumatico, al fine di migliorare l’aderenza nelle diverse condizioni.

Come detto precedentemente, negli anni ‘80 il pneumatico Pirelli di F1 era costruito con impiego del kevlar in cintura allo scopo di soddisfare i requisiti di leggerezza e limitare le temperature di esercizio. Questo tipo di costruzione restò in vigore per tutto il periodo di permanenza della Pirelli in questo campo e cioè fino al 1986, quando fu presa di nuovo la decisione di lasciare il campo dei GP.

Un punto debole di questa struttura è che il kevlar è molto resistente alla trazione, ma non offre nessuna resistenza alla compressione come risulterebbe invece impiegando una cordicella metallica. Però in questo caso, a parità di resistenza, una cintura metallica avrebbe avuto un peso di 4/5 volte superiore a quella di kevlar con tutte le relative conseguenze negative.

Per ovviare a questo inconveniente, la Michelin ha sperimentato nel campo dei pneumatici da competizione una “piattina” metallica col risultato di avere un tessuto molto leggero, molto flessibile e contemporaneamente molto resistente sia alle sollecitazioni di taglio che di compressione.

Questo materiale, che fu adottato da Michelin fin dagli anni ‘90 sui pneumatici destinati alle vetture del Campionato Tedesco DTM e successivamente del Campionato Mondiale Turismo, presenta però notevolissimi problemi di procedimento lavorativo; non è semplice gestire una piattina, tagliente come un rasoio, per realizzare un tessuto metallico gommato che deve rispondere a precise regole di omogeneità e regolarità, pena la perdita di tutte le buone caratteristiche di questo materiale che, per sua natura, non è trattabile in sede di processo di lavorazione con gli stessi sistemi adottati per una cordicella metallica.

Aerodinamica

Negli anni ’80, le monoposto erano dotate di un fondo appositamente disegnato e sigillato alla pista sui lati per mezzo di appendici mobili denominate “minigonne”, allo scopo di ottenere il massimo carico aerodinamico, valutato intorno a 2000 kg alla velocità massima della vettura.

Nel 1983, il bando delle minigonne e l’introduzione di una regola che imponeva l’impiego di un fondo piatto ridusse il carico aerodinamico. Le velocità in curva diminuirono considerevolmente ma, nonostante i cambiamenti regolamentari volti a limitare le dimensioni delle parti aerodinamiche, il carico tornò ad aumentare progressivamente fino al 1994, anno in cui furono di nuovo raggiunti i livelli del 1980 pur in presenza di una maggiore resistenza all’avanzamento. Peraltro le velocità non diminuirono, in quanto la maggiore resistenza fu più che compensata dall’aumento della potenza dei motori.

Dopo i tragici avvenimenti del GP di San Marino del 1994, che causarono la morte di Ayrton Senna e di Roland Ratzenberger, fu decisa una nuova drastica limitazione delle dimensioni e della posizione delle superfici aerodinamiche. Nonostante quei cambiamenti e quelli che seguirono, il carico prodotto dalle monoposto continuò ad aumentare, tanto che nel 2004 è stato superato il livello di dieci anni prima.

A questo punto è legittimo chiedersi come ciò sia potuto avvenire.

La risposta sta, da una parte, nello sviluppo degli strumenti di ricerca e nel loro utilizzo da parte di un numero sempre più elevato di ingegneri e, dall’altra, nello sviluppo e nell’impiego di materiali compositi per ottimizzare il comportamento delle superfici aerodinamiche sotto carico.

Nel 1980, lo sviluppo aerodinamico veniva realizzato in galleria del vento con modelli in scala ridotta, con aggiustamento manuale dell’altezza da terra e senza alcuna possibilità di verificare il rollio e l’imbardata del modello o di far sterzare le ruote anteriori per simulare il comportamento della vettura in curva.

Nel corso degli anni, la maggior parte delle squadre ha investito in modo notevole nella realizzazione delle proprie gallerie del vento, che sono diventate sempre più grandi fino al punto che oggi possono esservi utilizzati sia dei modelli in scala 1 : 1 che le vetture reali, ad altezze da terra variabili e con una simulazione degli angoli di rollio e di imbardata nonché del movimento delle ruote anteriori, tanto da riprodurre quasi integralmente le condizioni reali che la vettura dovrà affrontare in pista.

Infine lo sviluppo della cosiddetta “fluidodinamica computazionale” e l’incremento della potenza di calcolo, hanno permesso agli ingegneri di simulare il comportamento delle vetture in pista. Queste simulazioni insieme ad avanzate tecniche di visualizzazione dei flussi e a più potenti mezzi per la raccolta dei dati nei test della galleria del vento, hanno consentito una migliore comprensione della complessa natura del flusso d’aria sopra e intorno ad una moderna vettura di Formula 1. Questa è, in sintesi, la chiave per capire il perché si sia tanto progredito in quest’area

Motori

Nel 1981 molte squadre utilizzavano il motore Cosworth tre litri aspirato che aveva una potenza di circa 530 HP, mentre Ferrari, Renault e Toleman avevano motori da 1,5 litri dotati di turbocompressore. Anche se si dovette attendere fino al 1982 per

vedere una vettura con il turbo (la Ferrari) vincere il Campionato Costruttori e l’anno successivo per vedere un pilota Campione del Mondo con una vettura turbocompressa (Piquet con la Brabham BMW), era ovvio che questo tipo di propulsore avesse un grande potenziale, senza limiti fondamentali alla potenza massima ottenibile. Infatti la potenza era limitata dalla tecnologia dei turbocompressori e dallo stress termico e meccanico dovuti alla combustione sui pistoni, valvole, teste e scarichi.

Pertanto la ricerca si indirizzò sullo sviluppo dei materiali utilizzati per questi componenti nonché di benzine esotiche al fine di migliorare la velocità di combustione. La necessità per questi componenti di affrontare temperature molto elevate comportò l’impiego di leghe speciali a base di nichel nella produzione delle valvole di scarico, nei tubi di scarico e nei turbocompressori. Rivestimenti in ceramica erano utilizzati nei condotti di scarico e in alcune parti dei turbocompressori. Nel 1986, alcuni di questi motori arrivarono a produrre una potenza superiore a 1.200 CV nelle specifiche da qualifica. L’affidabilità non era un problema, in quanto questi propulsori dovevano durare soltanto pochi giri prima di essere sostituiti con una nuova unità per la gara. A quei tempi era in vigore una regola che limitava il quantitativo massimo di benzina che poteva essere imbarcato e i rifornimenti in gara non erano consentiti; la potenza massima si aggirava quindi sui 950 CV in gara, ma i piloti avevano la possibilità di aumentare la spinta del compressore e di conseguenza la potenza per brevi periodi allo scopo di effettuare i sorpassi.

Dopo alcuni tentativi di ridurre la potenza dei motori limitando la spinta della turbina e abbassando ulteriormente la capacità del serbatoio del carburante, i motori turbo vennero alla fine vietati e sostituiti con motori aspirati da 3,5 litri a partire dal 1989. Questi motori erano in grado di produrre una potenza intorno ai 630 CV a circa 11.800 giri.

La potenza e il numero dei giri erano limitati dall’efficienza fluidodinamica del sistema di aspirazione e di scarico e dall’elevato stress meccanico cui erano sottoposti componenti a moto alterno come bielle, pistoni e valvole. Infatti lo sviluppo dei materiali è stato un fattore fondamentale nel risolvere la maggior parte dei problemi relativi allo sforzo cui venivano sottoposte le parti sollecitate.

Sono state sviluppate leghe di titanio e di alluminio in modo da ottenere una riduzione di peso che ha permesso di aumentare il numero dei giri del motore mantenendo l’affidabilità.

Un’altra innovazione importante è stata la sostituzione delle molle meccaniche con quelle pneumatiche per la chiusura delle valvole.

L’impiego della “fluidodinamica computazionale” ha inoltre aiutato gli ingegneri ad ottimizzare l’efficienza del sistema di aspirazione e scarico. Tutto questo, in aggiunta ai nuovi materiali e allo sviluppo di un nuovo rivestimento che riducesse gli attriti, ha consentito di passare negli ultimi quindici anni dagli 11.500 giri fino ad oltre 19.000 e da una potenza di 630 a 900 hp, nonostante la riduzione della cilindrata da 3,5 a 3 litri entrata in vigore nel 1995.

A velocità inferiore a 160 km/ora i motori producono una coppia superiore a quella che può essere trasmessa dai pneumatici. Con il passare degli anni, sono stati sviluppati sofisticati sistemi elettronici di controllo del motore che possono rilevare quando le ruote posteriori cominciano a slittare e conseguentemente modulare automaticamente la farfalla motore e l’iniezione, in modo che il propulsore possa fornire la coppia ideale che i pneumatici possono trasferire in quel particolare momento.

Telaio, trasmissione e sospensioni

C’è stata una rivoluzione nella progettazione e nella produzione di molti componenti in queste specifiche aree (e non solo delle monoposto di Formula 1) dovuta soprattutto allo sviluppo di nuovi materiali e di nuovi processi costruttivi.

Nel 1980 tutti i telai delle vetture venivano costruiti utilizzando pannelli prodotti in fogli d’alluminio a nido d’ape. Negli anni successivi si è verificato un notevole aumento nell’impiego di materiali compositi per la costruzione del telaio. Le tecniche produttive sono state migliorate e raffinate e i telai attuali sono molto più resistenti, rigidi e leggeri di quelli degli anni ‘80.

A quell’epoca la maggior parte dei team impiegavano trasmissioni manuali a cinque marce. Anche se esistevano vari tipi di differenziali, erano tutti essenzialmente meccanici con caratteristiche fisse e le scatole di trasmissione erano realizzate in magnesio.

Le moderne trasmissioni hanno sette marce, il massimo permesso dal regolamento, con meccanismo di selezione delle marce e di controllo della frizione operato da un sistema elettro-idraulico, con la cambiata che richiede circa 25 millisecondi.

Molti team stanno studiando sistemi di cambiata senza perdita di energia, senza quindi perdita di potenza del motore nel passaggio di marcia. Oggi anche i differenziali sono a controllo elettroidraulico e il loro assetto viene controllato continuamente e automaticamente per stabilizzare la vettura in frenata e per modificarne l’equilibrio in tutte le fasi di percorrenza delle varie curve del circuito.

Negli anni ’80, i portamozzi e i triangoli delle sospensioni erano realizzati in acciaio o titanio; le pinze dei freni erano in alluminio e i dischi freni in ghisa. Con uno sforzo notevole per cercare di ridurre le masse non sospese, di aumentare la rigidità delle sospensioni e migliorare le prestazioni dei freni, si è assistito a un grande cambiamento nei materiali utilizzati. I portamozzi sono ora in un materiale composito in matrice metallica di alluminio, mentre i bracci delle sospensioni sono in fibra di carbonio. Anche per i dischi e le pastiglie l’impiego del carbonio ha aumentato in modo significativo l’efficienza della frenata mentre le pinze sono in lega di alluminio e litio per massimizzare la rigidità e ridurre il peso.

Circa 18 anni fa, sono stati sviluppati sistemi di ammortizzatori computerizzati e controllati elettronicamente, meglio noti come “sospensioni attive”. Il vantaggio principale di questi sistemi era che la posizione delle molle e degli ammortizzatori e la loro rigidità, potevano essere controllate automaticamente e settate in maniera

differente per ciascuna parte del circuito, in modo da ottimizzare la prestazione aerodinamica e anche la maneggevolezza della vettura. L’impiego di questi sistemi è stato vietato dal 1994.

Questa sommaria analisi può dare l’idea di come la ricerca e lo sviluppo volti a migliorare i materiali esistenti e a studiare l’impiego di nuovi materiali abbiano giocato un ruolo fondamentale nel miglioramento delle prestazioni.

Il Pirelli Cinturato CN36 della Fiat 124 Abarth
Il Pirelli Cinturato CN36 della Fiat 124 Abarth

Conclusione dell’esperienza Pirelli

Ci siamo sempre chiesti se le competizioni automobilistiche possano o meno essere utili per lo sviluppo dei prodotti di serie. Penso che i prodotti di serie possono essere sviluppati con successo indipendentemente dalle corse; queste però qualche volta permettono di scoprire delle soluzioni che possono anticipare i tempi.

Infatti ritengo che, nel caso dei pneumatici, si sarebbe comunque arrivati alla diffusione dei pneumatici ribassati, che ormai rappresentano praticamente il 100% delle coperture ad alte prestazioni del mercato mondiale; però in questo caso la Pirelli è arrivata prima degli altri sfruttando le ricerche e lo sviluppo volti a migliorare le prestazioni dei pneumatici da competizione sia su strada che su pista.

La mia opinione è che la Pirelli dovrebbe, ogni tanto, rientrare nel campo che rappresenta il massimo impegno dell’automobilismo sportivo, cioè la Formula 1.

Tengo però a sottolineare che ciò non sarebbe altrettanto valido in regime di “monogomma”, che, come ha giustamente dichiarato ad “Autosport” Eduard Michelin, significherebbe l’inizio di una politica simile a quella dei campionati monomarca: un solo motore, una sola vettura, stessi pneumatici: una sorta di “Clio Cup”, formula senza dubbio interessante ma non certo adatta alla Formula 1 che dovrebbe essere la classe regina in fatto di tecnologia.

Quindi anche se un impegno in F1 è dispendioso e comporta un discreto impiego di risorse, forse dovrebbe essere considerato come un “male necessario” perché, oltre alla possibilità di scoprire delle novità, si viene stimolati- sapendo di essere sotto i riflettori- ad acquisire una mentalità vincente.

In qualsiasi campo infatti- e qui voglio citare una frase che spesso ripeteva Enzo Ferrari- “arrivare secondi non serve poiché il secondo è il primo dei perdenti”.

E infine una frase che l’ing. Leopoldo Pirelli disse in un convegno dei dirigenti del Gruppo (evidentemente in quel caso non si riferiva alla Formula 1, ma comunque è valida per qualsiasi tipo di decisione) : “signori miei, sta bene tenere il piede sul freno, però ogni tanto bisogna saper spingere anche sull’acceleratore”.