,

Passioni e progetti: Gianni Tonti dai rally alla Formula 1

Lancia Fulvia HF del Reparto Corse Lancia

”Sono rimasto in Lancia dal 1967 al 1984, cioè dalla Fulvia alla Montecarlo Turbo, e quando me ne sono andato non è stato per poter finalmente misurarmi con la F1 – scrive l’ingegnere Tonti -. Lasciai la Lancia per una mancata programmazione che mi impediva di lavorare come avrei voluto e dovuto. Sto naturalmente parlando della Lancia già Fiat. Con gli anni ero diventato molto amico del mio omologo in Porsche, Metzger. Quando lo andai a trovare, nell’autunno del 1983 (per noi era usuale scambiarci delle visite in occasione di questa o quella gara), mi mostrò tutti i suoi programmi”.

di Gianni Tonti

La mia esperienza alla Lancia per me è equivalsa a un corso universitario. Vi sono entrato con un diploma di meccanico, e ho avuto la grande fortuna di lavorare insieme all’ingegner Francesco De Virgilio, uno dei più grandi progettisti che abbia avuto la Lancia: con lui è nato il motore a sei cilindri a V, il motore dell’Aurelia.

La seconda scuola che ho avuto sono state le competizioni. La Lancia, com’è noto, ha gareggiato a lungo nei campionati mondiali e, di conseguenza, ho dovuto approfondire le mie competenze, dapprima studiando sul libro di Giacosa (Progettazione prima del computer) poi approfondendo sui libri americani, soprattutto riguardo alla sovra alimentazione dei turbo-compressori.

Ho poi approfondito gli aspetti tecnici dell’aerodinamica, che stava imponendosi allora con la prima vettura Lancia del genere, la Beta Montecarlo Turbo Gruppo 5. Oltre all’aerodinamica ho approfondito lo studio della dinamica del veicolo. In Italia in quell’epoca, quando ho cominciato a occuparmi delle competizioni, l’andar forte era tutto legato alle elaborazioni del motore: c’era infatti una cultura motoristica, ma mancava una cultura telaistica. Approfondendo questo aspetto, trascurato in Italia, ho potuto costruire e fare delle macchine che si sono imposte nei campionati mondiali.

Sono stato anche il primo a realizzare un motore dieci cilindri F1, per l’Alfa Romeo: purtroppo non fu mai utilizzato per le competizioni, perché poco dopo la Fiat acquisì l’Alfa Romeo, e concentrò tutte le risorse per la F1 sulla Ferrari; di conseguenza l’Alfa Romeo si ritirò dalla F1. La prima Lancia da competizione sulla quale ho lavorato è stata la Fulvia HF, nata come 1200 e con un peso di 825 kg; il che chiarisce il rapporto tra peso e prestazioni, se si considera il fatto che la 1300 pesava 825 kg e il 1600, 850 kg.

Noi correvamo nel Gruppo 2 e nel Gruppo 4, per le vetture Turismo o Granturismo: abbiamo sempre fatto delle derivazioni per correre nei prototipi, infatti la Fulvia ha conseguito molti successi nei prototipi. La Fulvia è stata preziosa anche per lo sviluppo del progetto Stratos, derivato nel nome dalla Stratos Zero di Bertone, dato che questa aveva il gruppo motopropulsore della Fulvia. Poi, dopo l’accordo con la Lancia per costruirla, è stato utilizzato il motore derivato dalla Dino Ferrari.

Nella squadra corse Lancia si faceva tutto: motore, trasmissioni, vetture, nonché l’assistenza alle vetture sui campi di gara, e parlando di gara intendo non solo rallies, ossia i Campionati Italiano, Europeo e Mondiale, ma anche molte gare di velocità. I nostri cavalli da battaglia erano la 24 Ore di Daytona, la Targa Florio, il Circuito del Mugello, la 1000 Km di Nürburgring e la 84 ore del Nürburgring. Ogni anno le gare erano dalle trentacinque alle quaranta, e le macchine preparate un’ottantina, oltre alle macchine di prova.

Dalla Fulvia abbiamo anche derivato le Barchette; ne abbiamo fatte tre (anche se in giro ce ne sono di più…). La Fulvia è stata una vettura splendida, che ci ha dato tante soddisfazioni, e parlo solo delle gare a cui partecipava la Lancia ufficialmente, senza contare le vittorie dei nostri clienti.

Ma a questo risultato non siamo arrivati facilmente o di colpo. Nel luglio 1967, quando sono entrato al Reparto Corse Lancia, non si costruivano internamente le macchine e i motori; queste venivano preparate dal torinese Almo Bosato e dai milanesi fratelli Facetti. I dipendenti del Reparto Corse erano solo cinque. Si prendevano le macchine, le si iscriveva alle gare e le si portava in pista. Sono stato io a creare il Reparto Corse, a mettere in piedi una struttura in grado di costruire tutto ciò di cui c’era bisogno.

Già alla fine del 1968 disponevamo di tre sale prova motori: ci siamo attrezzati per fare i motori e per costruire anche le macchine. Allora, come ho detto, correvamo nella categoria Gruppo 2 con la Fulvia Coupè HF 1300 omologata Turismo, e anche nella categoria Sport Prototipo, perché nella Targa Florio, al Mugello o alla 1000 km di Nürburgring non avrebbe avuto senso correre nel Gruppo 2. In queste gare correvamo nella categoria Prototipi 1300 per poter alleggerire le vetture in modo più marcato e per sperimentare sul campo le evoluzioni della vettura che avremmo poi utilizzato nei rally in Gruppo 2.

Una di queste sperimentazioni, per esempio, ha riguardato il motore 1401 cc, che non è mai andato in produzione, e il primo motore 1600, fatto per le competizioni e che poi, con l’omologazione, abbiamo usato per le gare del Mondiale rally. Quando parliamo di elaborazione, per il Gruppo 2, intendiamo tutto ciò che si faceva per cercare di alleggerire le masse rotanti o alterne: perciò albero, motore, volano, frizione, bielle, stantuffi. Tutto il resto veniva lucidato a specchio per evitare gli innesti di rottura.

In questo modo con il motore 1300 abbiamo raggiunto 145 CV e con il motore 1600, 162 CV. Con il motore 1600 abbiamo ottenuto una potenza specifica più bassa perché aveva una corsa più lunga del 1300: la differenza di cilindrata tra il 1300 e il 1600 era dovuta alla corsa. A 7500 giri avevamo una velocità media dello stantuffo di 21,5 metri al secondo, numeri per quei tempi da F1; pertanto non era possibile giocare sull’aumento del numero dei giri.

La Fulvia 1600 arrivava a 7700 giri/min. Il motore della Fulvia 1300, che aveva un corsa più corta, aveva un limite di 8300 giri/min. e, di conseguenza, la potenza specifica ottenibile era superiore rispetto a quella del 1600. Poi, a seconda del tipo di gara si cercava di adeguare la vettura. Per esempio, nei rally la Fulvia era dotata di otto fari e di conseguenza dovevamo avere un alternatore che arrivasse a 700 W.

Gianni Tonti e Maria Leitner
Gianni Tonti e Maria Leitner

Il raffreddamento dell’acqua sulla Fulvia era regolato da una ventola azionata da una cinghia. Nelle gare di velocità corte, specialmente in quelle in salita, abolivamo alternatore, cinghia e ventola e alleggerivamo al massimo il volano e la frizione. La frizione infatti doveva durare solo qualche minuto, anziché ore; come vantaggio, ovviamente, ottenevamo ben maggiore potenza. Altro accorgimento che adottavamo era mettere una quantità minima di olio motore, anzi, il radiatore dell’olio praticamente veniva abolito.

Sia nel Gruppo 2 sia nel Gruppo 4 dovevamo stare nel peso di omologazione che era di 825 kg per la 1300, di 850 kg per la 1600, e bisogna tener presente che i rally si correvano con due piloti, c’era il roll-bar, le varie protezioni, le batterie. Stare nel peso non era davvero facile, quindi dovevamo alleggerire tutte le parti alleggeribili. Il regolamento del Gruppo 2 e del Gruppo 4 consentiva di alleggerire le parti meccaniche, che però non si potevano sostituire. Su tutte le traverse, sui telai e così via venivano praticati dei fori, che però non dovevano compromettere l’affidabilità o la rigidezza del telaio.

Nei rally più impegnativi si dovevano addirittura appesantire queste parti e perciò si finiva per correre con un peso superiore a quello di omologazione. Per fare un esempio della diversità dei problemi da affrontare e risolvere, alla Targa Florio noi correvamo con un prototipo di 770 kg, anziché 825, perché tanto correva un pilota solo e il secondo sedile, quello del passeggero, non era obbligatorio, pesava meno di 1 kg e la vettura era tutta molto più leggera.

A seconda delle gare, di velocità, o di durata, potevamo andare dai 770 kg, con cui abbiamo corso alla Targa Florio, ai 790 kg, come nel caso della Barchetta per il Tour de Corse. La Barchetta scaturì da un’idea nata nel viaggio di ritorno da una 24 Ore di Daytona, che si svolgeva sempre tra la fine di gennaio e i primi di febbraio. Sull’aereo, Claudio Maglioli, uno dei nostri piloti oltre che valente preparatore, seduto accanto a Cesare Fiorio, si lamentò del fatto che con la Fulvia si doveva correre con i finestrini chiusi, cosa insopportabile in certe gare come la Targa Florio dove era prevedibile facesse molto caldo.

“Non si riesce a resistere – insistette Maglioli – Perché non facciamo uno spider?” “Non abbiamo soldi per correre con una Fulvia normale – rispose Fiorio – come pensi che potremmo fare uno spider?”. Ma Maglioli intendeva non una vettura riprogettata dall’inizio, bensì una Fulvia con la capotta tagliata. Tornati a casa, Fiorio me ne parlò, ed io, fatto qualche conto, calcolai che l’alleggerimento poteva arrivare a 50/60 kg, anche se Maglioli, con il suo entusiasmo, addirittura aveva ipotizzato 150 kg.

Tagliammo il tetto, però installammo anche un roll-bar per compensare la rigidità che senza il tetto chiuso sarebbe venuta a mancare, ed abbiamo anche eliminato il parabrezza. La “scoperchiatura” della Fulvia ha permesso un miglioramento rispetto al Coupé di un centinaio di chili, con conseguente miglioramento del rapporto peso/ potenza. Il peso fu infatti ridotto da 770 a 680 kg, circa il 15%, di meno, un risultato considerevole.

Nell’elaborazione della Fulvia si cercava di aumentare la potenza: l’aerodinamica non era ancora indagata a fondo, non era ancora entrata nella cultura comune, non esistevano neanche le gallerie del vento. Si giocava tutto tra peso, potenza e gomme. Le gomme già allora erano importantissime. Eravamo limitati in larghezza dalla carrozzeria, con i codolini si poteva allargare al massimo di cinque centimetri per lato, non di più.

Con la Fulvia siamo arrivati a sette pollici, con la vettura di serie 1600 la gomma era di 4,5 pollici. Non esistevano comunque le gomme racing nelle misure che ci servivano, né le slick. Trovammo le racing, soprattutto Goodyear, negli Stati Uniti, quando andavamo a correre là; poi è arrivata la Dunlop, quindi la Michelin, per ultima la Pirelli. Tutte le corse vinte nel 1967 lo sono state con il cinturato Pirelli, che è diventato un prodotto di serie.

Le gomme sono un altro elemento importante per le prestazioni della macchina, si faceva di tutto per assecondare le gomme e si studiava l’assetto a seconda del tipo di percorso. Sulla Fulvia avevamo le balestre sia davanti sia dietro; di conseguenza la gran parte del nostro lavoro era sulle balestre per dare la rigidezza voluta, per abbassare o alzare la vettura; gli ammortizzatori seguivano il lavoro delle balestre perché dovevano smorzare le vibrazioni innescate dalle balestre.

Gli ammortizzatori da corsa per eccellenza erano i Koni; per la regolazione usavamo una manopolina all’esterno. Con la trazione anteriore le balestre facevano un gran lavoro; per le gare di velocità usavamo due rulli di bronzo su una forcella che aveva tre posizioni: potevamo velocemente alzare e abbassare la vettura senza variare la rigidezza, spostando i rulli più in alto o più in basso.

Per aumentare la potenza aumentavamo la capacità della coppa dell’olio, e naturalmente anche la portata dell’acqua con radiatori più grossi. A seconda delle esigenze delle gare, , montavamo coppe più piccole o più grosse, sempre però avendo cura di contenere al massimo il peso delle vetture.

Altro capitolo sono state le Fulvia Zagato Sport, che abbiamo utilizzato in alcune gare per Prototipi per la loro grande penetrazione aerodinamica. Avevo fatto una prova comparativa molto interessante sulla pista della Fiat di Villastellone-Marene, che corre parallela all’autostrada Torino-Savona, montando lo stesso gruppo motopropulsore sulla Fulvia Coupé HF e, dopo un’ora, sulla Zagato. Con la Fulvia HF 1600 furono raggiunti 198 chilometri all’ora, con la Zagato 214, una bella differenza dovuta solo alla migliore penetrazione.

Utilizzammo la Zagato soprattutto nelle gare americane, come la 24 Ore di Daytona e la 12 Ore di Sebring; nel 1969 abbiamo vintola categoria Prototipi fino a 2000 cc. a Daytona. La superiorità aerodinamica si accentuò ulteriormente con l’ultima versione, realizzata appositamente da Zagato per Lancia Corse; tutta carenata, compreso anche il muso, con dei rivestimenti di plexiglass. La Stratos è stata progettata per le corse, cioè fin dall’inizio del progetto l’obiettivo era agonistico, una differenza, rispetto ad esempio alla Fulvia, fondamentale.

È la differenza che separa una casa automobilistica, che nella sua struttura crea un reparto corse, dedicato alla progettazione, da preparatori che lavorano solo sulla sperimentazione, senza alcuna struttura a supporto. In questi casi, se c’è bisogno di disegnare un pezzo lo si disegna sul pezzo finito realizzato in sperimentazione.

Con un reparto progettazione la genesi dei pezzi è ben diversa: c’è un pensiero più organico, si risponde a degli obiettivi, si fa prima un progetto, e solo dopo si passa alla fase di sperimentazione. C’è lo spazio per l’innovazione. Nel caso dei preparatori, dovendo, per esempio, realizzare un radiatore, si mandava un operaio specializzato in magazzino; questi guardava i pezzi a disposizione e con ciò che si trovava si costruiva l’alloggiamento e la struttura a sostegno del radiatore dell’olio o dell’acqua oppure le prese d’aria per i freni.

Un progettista, animato dallo stesso obiettivo, è obbligato a pensare; non parte da ciò che ha in magazzino, bensì valuta il peso del radiatore, o come costruire le staffe, studia la posizione più adatta dal punto di vista del flusso dell’aria. Il risultato è un progetto ben articolato, che porta a costruire qualcosa di nuovo, di diverso da quello che è stato realizzato prima. Tra vetture costruite dal progettista e quelle costruite dal preparatore, le differenze sono evidenti.

La Fulvia è stata costruita quasi esclusivamente in modo sperimentale; la Stratos, specialmente la Silhouette, scaturì da un progetto. Ritengo che un progettista debba liberarsi di quello che è già stato fatto e porsi degli obiettivi con mente libera, se vuole innovare. La progettazione è un proiettarsi in avanti; se si pensa alle cose già fatte ci si tarpa le ali da soli.

Il primo motore che ho realizzato ex-novo è stato per la Montecarlo Turbo, dove il regolamento imponeva un basamento di serie e lasciava libertà per il resto. Non era un vincolo da poco, per quanto possa sembrarlo. Quelli dell’Abarth – all’epoca lavoravo già in Abarth, ma utilizzavo il reparto motori Lancia di via San Paolo, perché le mie prove erano molto più avanzate di quelle che si facevano all’Abarth – hanno tirato fuori tutte le evoluzioni realizzate da loro su quel basamento, il 4 cilindri in linea Fiat. Le ho rifiutate tutte perché secondo me bisognava fare qualcosa di completamente nuovo, e partendo da quel basamento, che era l’elemento obbligatorio, abbiamo costruito un motore innovativo.

Ho tirato la prima riga a luglio, abbiamo partecipato alla prima gara alla fine di marzo dell’anno successivo, con 380 CV, diventati poi alla fine dell’anno 450 CV. Le gare duravano sei ore mentre, per confronto, in Formula 1 si utilizzavano motori da 480 cavalli, ma per gare di un paio d’ore. Inoltre in F1 non vigeva il vincolo del basamento di serie: partivano da qualcosa progettato appositamente. Insomma, sono convinto che per fare prodotti vincenti bisogna buttarsi avanti, progettare qualcosa di inedito.

Seguendo questo approccio, sono riuscito a definire la Lancia Montecarlo Turbo, la LC1 e la LC2, che in maniera palese sono derivate da un progetto; non così la 037 che – costruita sotto la mia regia, ma con la struttura dell’Abarth, che utilizzava un preparatore – appare con più evidenza una vettura costruita “sperimentalmente” e poi “regolarizzata” con i disegni.

Se sono riuscito a coltivare la cultura della progettazione, devo dire grazie al mio professore, De Virgilio, che era capo di tutta la progettazione Lancia. Ho imparato molto anche dal cavalier Bertino, responsabile della progettazione e sperimentazione Lancia per tutto ciò che riguardava la trasmissione, che era cruciale in vetture che dovevano sottostare al regolamento del Gruppo C, che imponeva un dato peso, determinate caratteristiche, per esempio i due posti, in compenso però lasciava completamente liberi nel progetto del motore. Poteva essere a due o a ventiquattro cilindri, aspirato o turbo. C’era però un ultimo vincolo, fondamentale: il carburante era contingentato.

Si tendeva a realizzare motori relativamente grossi, perché meno cilindri ha un motore, meno giri fa e meno benzina consuma. Privilegiavamo motori con molta coppia: tutta la trasmissione aveva bisogno di essere proporzionata alla potenza disponibile. Le famose vittorie delle Delta 4×4 sono state conseguite grazie a Bertino, che è stato la mente e anche il braccio di tutto quel che riguarda in quegli anni la trasmissione delle vetture Lancia.

Sono rimasto in Lancia dal 1967 al 1984, cioè dalla Fulvia alla Montecarlo Turbo, e quando me ne sono andato non è stato per poter finalmente misurarmi con la F1. Lasciai la Lancia per una mancata programmazione che mi impediva di lavorare come avrei voluto e dovuto. Sto naturalmente parlando della Lancia già Fiat. Con gli anni ero diventato molto amico del mio omologo in Porsche, Metzger. Quando lo andai a trovare, nell’autunno del 1983 (per noi era usuale scambiarci delle visite in occasione di questa o quella gara), mi mostrò tutti i suoi programmi.

Aveva già pronti i prototipi per la Dakar, che avrebbe corso per tre anni, mentre io ad ottobre non sapevo se l’anno dopo ci saremmo potuti iscrivere o no al Campionato Mondiale. È chiaro che per un settore competitivo come le corse non avere il programma di cosa succederà domani è drammatico. L’offerta che ricevetti in quel periodo dall’Alfa Romeo, in crisi per la mancata qualificazione al Gran Premio di Montecarlo del 1984, cadde al momento giusto.

In una settimana presi la decisione di accettarla, dopo aver persino ottenuto la benedizione di Enzo Ferrari, che pure avrebbe voluto avermi con sé. Ma saputo che la mia decisione era per l’Alfa Romeo mi disse: “L’Alfa Romeo per me è una mamma perché, come ben sa, vengo da là, vada all’Alfa Romeo e speriamo che possa fare bene anche lì come ha fatto alla Lancia, comunque si ricordi che finché vivrò un posto in Ferrari per lei ci sarà sempre”, una frase che mi confortò e mi incoraggiò molto.

Arrivato in Alfa Romeo nel maggio 1984, a settembre con le modifiche da me suggerite siamo arrivati terzi al Gran Premio di Monza. Nel 1986, però, era già finito tutto, perché con l’entrata della Fiat abbiamo dovuto rinunciare alle corse. Da una parte, questo abbandono è stato per me fonte di amarezza, perché mi è costato molto dover rinunciare al massimo livello dello sport automobilistico; nello stesso tempo, l’ho accettato di buon grado perché la Fiat mi aveva praticamente impedito di lavorare sul motore.

Sapevo che non avrei potuto esprimermi come eravamo in grado, e a questa stregua era meglio lasciar perdere, non avremmo potuto in quelle condizioni fare bella figura. Di questo abbandono non si avvantaggiò nessuno: è una favola la storia che è circolata nell’ambiente, e cioè che il motore V10 Alfa Romeo sia poi stato utilizzato dalla Ferrari. Non fu così. Il motore a dieci cilindri nacque da un suggerimento di De Virgilio, quando mi vide alle prese con i vecchi dodici cilindri Alfa Romeo che erano stati tirati di nuovo fuori nello sforzo di progettare un motore da F1.

Sviluppai questo suggerimento fino a realizzare il motore e quando ci ritirammo dalla F1 poche furono le ricadute positive. In Ferrari c’era una scuola motoristica diversa da quella dell’Alfa Romeo; alcuni miei collaboratori però, come D’Agostino e Tabaschella, migrarono in Ferrari, portando il tesoro della loro esperienza.