I miei Rally Elba anni Ottanta con Berro, Dalpozzo…
La mattina (tarda) i piloti si crogiolavano in piscina vivendo una sorta di pace concordata. I rispettivi navigatori, invece, seduti ai tavolini della reception consumavano non birre, ma decine di gomme e matite per sistemare le loro note e, mentre i nostri meccanici che avevano trasformato il giardino in tante piazzole di lavoro curavano e lustravano i “muletti” come figli unici e prediletti, le ”matricole”, gli ospiti ”tedeschi” (non immuni da alcun tipo di tregua) si rifugiavano quatti quatti in spiaggia, decretata ”terra di nessuno” e salva, fino a sera, da ogni tipo di imboscata.
Correvano i famosi anni Ottanta e ormai da tempo l’intera isola era diventata nostra amica e complice offrendo ad Angelo e a me come ricompensa per tanta fedeltà la conquista di un terzo e un quinto posto nella classifica finale delle sue due precedenti edizioni, assecondati dalla storica affidabilità della nostra ormai famosa Ford Escort dal “muso rosso”.
La nostra base operativa aveva la sua sede tradizionale presso l’Hotel Fabricia trasformato per l’occasione nella roccaforte piratesca di Claudio Berro, di Rudy Dalpozzo e di Fabio Penariol diventati a causa dei loro scherzi e alla complicità ed alla sopportazione del direttore dell’Hotel “Mr. Mezzometr”, l’incubo e lo spauracchio di ogni ospite tedesco e di quegli equipaggi “matricola” che non avevano ancora superato il loro rito di iniziazione rallistica.
D’altronde Il cartello appeso all’ingresso dell’Hotel parlava chiaro: “E’ severamente vietato l’uso incondizionato e indiscriminato di: 1 estintori brandeggiabili a polvere. 2 Idranti ad acqua. 3 L’utilizzo della sala colazioni e pranzo come circuito per ape-car. 4 Qualsiasi gara di salto in piscina con mezzi a 2, 3 e 4 ruote. 5 Cuscini, materassi e mobilia devono obbligatoriamente rimanere sempre all’interno di ciascuna camera. Firmato “il Direttore”. Ma nessuno vi diede mai peso, rilevanza o importanza…
La gara dell’Elba era la terza di calendario dopo la Targa Florio che si correva a marzo e il Costa Smeralda che partiva il 1° giorno del mese successivo e, come tale, assoggettata ad ogni tipo di “pesce d’aprile” di livello internazionale… L’Elba, a maggio, era splendida nei suoi colori: rigogliosa e civettuola e vestita a festa come la donzelletta del Leopardi. La mattina (tarda) i piloti si crogiolavano in piscina vivendo una sorta di pace concordata.
I rispettivi navigatori, invece, seduti ai tavolini della reception consumavano non birre, ma decine di gomme e matite per sistemare le loro note e, mentre i nostri meccanici che avevano trasformato il giardino in tante piazzole di lavoro curavano e lustravano i “muletti” come figli unici e prediletti, le “matricole”, gli ospiti “tedeschi” (non immuni da alcun tipo di tregua) si rifugiavano quatti quatti in spiaggia, decretata “terra di nessuno” e salva, fino a sera, da ogni tipo di imboscata.
Il pomeriggio, dopo un leggero pranzo ed una breve pennichella, si usciva per ricontrollare note e percorso, per calcolare gli anticipi di gara, correggere ed evidenziare particolari importanti quali la presenza di distributori o officine e per identificare i vari punti di assistenza che, posti prima, dopo o addirittura nel bel mezzo di ogni PS ci avrebbero garantito una scelta oculata degli pneumatici e una possibile soluzione ad ogni inaspettato problema meccanico.
E proprio in quelle ore nasceva e si rafforzava il tuo rapporto con l’isola: ne cominciavi, percorrendola in lungo e in largo, ad apprezzare gli scorci offerti dalla natura: l’apparire improvviso di una piccola baia o lo scoperta di un piccolo borgo di pietre antiche, sbocciato come fiore tra il verde degli uliveti. Non avevi fetta, non eri assillato dal cronometro e, pur seguendo un preciso piano di lavoro, avevi tutto il tempo e la occasione di poter vivere dei pomeriggi come un villeggiante qualsiasi, liberando la mente dai mille dubbi e dai problemi di sempre, sentendoti finalmente in armonia con te stesso, condividendo quella gioia interiore con il tuo pilota: complice, amico, confidente, consapevole, come te della propria professionalità e della propria libertà.
Un sosta in un bar di Porto Azzurro per sorseggiare un caffè, assaliti da una miriade di ragazzini petulanti e desiderosi di accarezzare il tuo muletto come l’ala di una farfalla multicolore, o salutato da paesani e dai turisti, dato che per loro non eri un intruso, ma un “personaggio” ammirato per la professione, per il ruolo e per il marchio automobilistico che rappresentavi.
Poi, cinque minuti di relax rubati in solitudine sulla cima del Monte Perone o del Volterraio, accompagnato dal grido stridulo dei gabbiani, accovacciato accanto alla tua amica auto ad osservare l’orizzonte, a scrutare quelle piccole case, le scie di quelle navi che sembrava solcassero un mare azzurro contenuto in una sfera di cristallo: di quelle con la scritta Isola d’Elba ricoperta di lustrini e che, se capovolta si ricopriva di neve, in un inverno impossibile, frutto solo della fantasia e di una tua pace interiore.
In quegli anni una gara come quella, valida per il campionato europeo a massimo coefficiente era divisa in tappe che non facevano distinzione tra tratti cronometrati in terra o asfalto e che potevano durare ciascuna anche 36 ore, costellate da circa 38 prove speciali che costringevano noi navigatori a sciorinare note quasi 7 ore consecutive.
Gli “anticipi” arrivavano al massimo a concederti 3 o 4 minuti di lavoro da sfruttare fino all’ultimo secondo in centinaio di punti di assistenza disseminati in un percorso lungo più di un migliaio di chilometri e scrivere, correggere e controllare tutto quel tragitto di gara, le note, i riferimenti, le traiettorie, le buche e i tranelli in prove lunghe anche 40 chilometri (vedi “Calamita” o la “Chiessi colle d’Orano) non era certo un giochino che potevi risolvere in un paio di giorni ricognizioni forsennate.
Anche perché dopo otto ore consecutive trascorse in auto e con una media di più di trecento chilometri percorsi giornalmente, il tuo cervello ad un certo punto ti diceva “stop” e se, una volta cenato, decidevi di riuscire per controllare la validità delle tue note facendoti caracollare dal tuo pilota fino alle 4 del mattino, riuscendo a volte a staccare in prova dei tempi mai poi raggiunti in gara, poi ben capire perché trascorrere un’intera mattinata in piscina, cercando di scaricare tensione e stanchezza, “sodomizzando” qualche povero tedesco, aveva oltre che una logica, anche una giustificazione più che plausibile…
L’Elba era una gara estenuante, senza limiti o soste che alternava ogni prova speciale ad un trasferimento mozzafiato con assistenze vissute al limite del possibile e le otto ore di pausa che separavano una tappa dall’altra, invece di trascorrerle in un meritato riposo, tu eri costretto a giocartele ripristinando ed aggiornando i piani assistenza e i carichi gomme da sistemare e ordinare sui furgoni e sulle vetture veloci.
Ecco perché nei giorni che precedevano l’evento era importante ripristinare tutte le proprie energie; centellinare gli sforzi, liberare mente e corpo da stress e problematiche d’ogni tipo. Di lì a poco, infatti, ci saremmo trovati tutti a combattere una vera guerra che, anche se di sport, avrebbe preteso e richiesto tutto e incondizionato, il nostro apporto fisico e mentale.
Inoltre al termine delle tue ricognizioni, tu navigatore, dovevi preparare l’intero piano di lavoro per i meccanici, la logistica, gli spostamenti delle vetture veloci, calcolando per ogni mezzo e furgone tempi e itinerari, disegnando e riproducendo ogni punto di assistenza nei minimi particolari e riportandoli poi sulle cartine geografiche rigorosamente in scala 1:25.000 (non esistevano i telefonini o il Tom-Tom) e completare, infine, il famoso piano gomme che, considerato l’utilizzo di quattro pneumatici nuovi per prova e la quantità di mescole disponibili diventava grosso e voluminoso come una Treccani del caucciù.
Poi, in gara, I giorni si sarebbero alternati alle notti, L’alba ti avrebbe visto tuffato all’interno di qualche furgone a sgranocchiare un pezzo di formaggio o una fetta di mortadella condita con olio o grasso motore e a sorseggiare una fumante tazza di caffè tenuta stretta tra due palmi infreddoliti, magari dopo aver questuato dalla Signora Conrero: rivale e amica, un barretta di cioccolato fondente, apparsa miracolosamente dal bagagliaio della sua vettura, considerato da tutti il miglior bar ambulante della carovana rallistica. Sorrido, quindi, nel pensare alle gare d’oggi!
Superfluo ogni paragone, ogni considerazione. Mi stupisce solo l’atteggiamento dei Piloti che reputo ormai primi di sentimento e di capacità affettive. Il navigatore: zavorra. Il team: una banda mercenari. Le gare: una necessità amministrativa. Le Prove Speciali: se disputate su di un simulatore sarebbero perfette. I rapporti con gli altri Piloti: solo conflittuali. L’amicizia: cos’e? Non parliamo poi di cultura sportiva o di conoscenza giuridica, di strategia, di pianificazione, di organizzazione e di logistica… il giorno che dovesse mancare la famosa “connessione” assisteremmo a dei suicidi di massa, anzi, no, che siano gli altri a immolarsi! A noi non interessa! Viviamo un altro mondo e un’altra storia. Nella loro, oggi, importante è solamente competere in chi ce l’ha più lungo… e chi ce l’ha più colorato…Esibendo, poi, il proprio motorhome o la propria tuta, naturalmente…! Ma, in quei tempi le nostre dee assolute erano due: la “Dea Notte” e la “Dea Luna”
Come per miracolo, con una sintonia perfetta, quando le due Veneri si erano impossessate del mondo, simili a grilli che uscissero dalle loro tane per rallegrarlo con il proprio canto, improvvisamente sulle strade e sui sentieri dell’Elba comparivano i “muletti”. Uscivano dai giardini degli hotels, dai parcheggi dei ristorantini e delle bettole del porto o da quelli del Club 84: famosa discoteca sulla statale per Marciana Marina dove si erano consumate le ultime chiacchiere e gli ultimi ammiccamenti amorosi di quella sera. I piccoli animaletti, in processione, seguiti da uno stuolo di motorini e di furgoni di assistenza si sarebbero poi sparpagliati lungo strade e sentieri, seguendo un‘ ordine apparentemente illogico, ma stringendo l’intera isola una ragnatela sottile e complessa di passaggi e di ricognizioni protratte fino e al primo sorgere del sole.
Si sarebbero arrampicati, tutti, fino alle pendici di Sant’Ilario, lungo i ternanti del Monte perone o quelli del Volterraio. Avrebbero scorrazzato festosi seguendo le sinuosità del Monumento o quelle del Calamita. Si sarebbero inerpicati fino alla cima della Parata o nascosti tra i cespugli della San Martino o della Segagnana.
Nessun turista, nessuna vettura, nessun pulman affollato, nessun ragazzino in bicicletta o famigliola a passeggio nei boschi. Solo una natura incontaminata, il tuo fido meccanico con il suo furgone al seguito ed una miriade di appassionati che, in sella ai loro motorini bardati di cartone come cavalli da corrida, fermi alla partenza di ciascuna prova, sempre pronti a spostarsi in un qualunque angolo dell’isola, erano il tuo what’s up del tempo: “E’ appena passato Cunico con la Stratos”. Ci dicevano. “Cerrato ha già fatto due giri, ma adesso si è spostato sul Calamita”. Aggiungeva qualcun altro. E intanto nel cielo vedevi sciabolare fasci di luci amiche, sentivi in lontananza il rombo inconfondibile delle vetture impegnate nella prova. Facile distinguere una Porsche Gruppo 4 da una Fiat 131, o una Lancia Stratos…
“In prova adesso ci sono Zanetti…Tardidi e Del Zoppo che però fa solo un passaggio!”. Si affrettava ad aggiungere un ragazzino in sella alla sua vespa 50 color cartone… Intanto Gianni, il nostro meccanico, terminava di sostituire gli pneumatici, di controllare per la centesima volta l’olio e a ripulire per la millesima il parabrezza, desideroso di consegnarci per quella sera una vettura uguale, se non migliore di quella da gara. Perché l’auto che usavamo a quei tempi per le ricognizioni altro non era che una degli esemplari ufficiali usati l’anno precedente e quindi perfetta in ogni dettaglio: con il roll-bar, 6 Megalux, protezioni, sedili anatomici, cinture a 5 punti. Le gomme, naturalmente, erano quelle “ufficiali” e quindi ottimali non solo per ogni tipo di performance, ma determinanti nella scelta per un loro successivo utilizzo in gara.
Quella sera avevamo deciso di posizionare il furgone nella piazzetta di Bagnaia. Avremmo potuto così provare sia il Volterraio che la Parata: una prova, questa seria ed impegnativa che partendo da Cavo ti riconduceva dopo 14 chilometri e dopo una serie di saliscendi percorsi lungo la costa nord dell’isola alla piazzetta del piccolo paesino ed al suo porticciolo.
Ci avviammo, così, verso Cavo, immersi nei nostri pensieri: ora solamente di gara, ritornati ad essere entrambi un equipaggio a tempo pieno. Non più distratti dal panorama, dal luccichio delle lanterne o dall’ abbaiare dei qualche cane, ma concentrati nel nostro lavoro: gli occhi fissi sull’ asfalto, gli orecchi tesi ad ascoltare il motore ed ogni minimo rumore della vettura. Il radar e il quaderno delle note aperti sulle ginocchia, la matita stretta tra le dita e il corpo che aveva ormai sposato la sua posizione ottimale, pronto a sopportare e a reagire ad ogni provocazione, ogni sobbalzo, ogni emozione inaspettata.
“Facciamo un giro secco sulla Parata con queste gomme”. Esordì il capo. “Prendi il tempo al bivio a fine asfalto: Poi la rifacciamo con gli intermedi. Vediamo quali delle due sono più veloci”. Ed il silenzio, o meglio, il brusio del motore ritornò ad essere padrone, mentre la Dea Notte, complice perfetta, cominciava a nasconderci alla vista tutto ciò che avrebbe potuto distogliere il nostro sguardo da quella serpe marrone di terra e da quei muretti che la costeggiavano e che la proteggevano come scudi spianati a sua difesa.
Vi è un momento impresso nella mente di ogni navigatore: quello in cui il tuo pilota fa scattare l’interruttore dei sei fari supplementari. E’ come se qualcuno improvvisamente avesse squarciato quel telo di velluto nero che ti avvolgeva, dando nuovamente vita, splendore e identità anche al più piccolo dei particolari: ad un sasso, ad un fiore, ad un ramo torto, ad un ciuffo d’erba facendoli riapparire in tutta la loro reale e assoluta perfezione. E’ come se il sole si fosse concentrato, improvvisamente, nel voler illuminare un unico e solo cono di luce lungo il quale, una volta tuffatovi senza esitazione, avresti dovuto lasciarti trasportare dalla passione, dalla tua professionalità e dalle imprevedibilità del fato fino a riemergere in un’oasi di tranquillità e di normalità, accolto solamente dal sorriso compiaciuto del tuo meccanico o quello di un cronometrista pronto a chiederti con modi precisi, la tua tabella di marcia.
E con quel preciso gesto del Capo, l’ennesima lunga notte delle ricognizioni aveva avuto il suo inizio. La sensazione improvvisa e del tutto inaspettata fu stranissima… Mentre percorrevano un tratto di prova molto sconnesso, stretto e impegnativo che costeggiava il vuoto, il parabrezza, improvvisamente si illuminò come se un elicottero apache, emerso dal nulla, ci avesse puntato addosso il suo faro micidiale. Il bagliore fu accecante, seguito da un rumore strano, cupo, un po’ metallico.
La macchia ebbe un piccolo scossone. Noi un grosso brivido di incredulità. Ci fermammo. Accostammo il più possibile al limite del sentiero e dopo esserci guardati con stupore decidemmo che l’unica cosa da farsi era quella di uscire dalla vettura e cercare di capire cosa cavolo fosse realmente successo.
Eravamo arrivati circa a trequarti della prova: in alto, oltre al culmine della salita, nel tratto che costeggiando il mare offriva alla tua vista, anche di notte, un panorama mozzafiato. Portoferraio lo intravvedevi in lontananza e le sue luci confuse con il bagliore della luna si riflettevano sulle onde mentre le sagome nere dei cespugli e delle ginestre ti sovrastavano simili a dei giganti buoni. Intorno il silenzio era assoluto.
“Max, ma tu hai capito qualcosa…?”, sentenziò Angelo, saltellando da una parte all’altra della strada, infreddolito, infastidito e soprattutto deconcentrato da quell’ intermezzo inaspettato. “No, Capo!”. Risposi io, anche se con poca convinzione, dal momento che stava maturando in me l’idea che il grosso apache immaginario, altro non fosse stato la sagoma di una vettura che, arrivata in senso contrario, con i suoi sei megalux accesi, fosse riuscita in qualche modo a scansarci, continuando poi la sua strada in una “quasi” perfetta normalità. Mi sentivo Sherlock Holmes… ma a convalidare la mia teoria mancava un piccolo, ma anche grosso indizio: l’altra macchina.
Intanto, intorno a noi il silenzio era totale. “Capo…guarda qua!”. Esclamò, indicando all’altezza del paraurti sinistro, proprio sotto il fanale, una piccola ammaccatura abbellita da un baffo di vernice di colore blu. Avevo trovato l’indizio chiave! Ma intorno a noi, in ogni caso, tutto era sempre buio, mentre il silenzio fu improvvisamente squarciato da un’unica e unisona esclamazione corale: “Ma no xe che i xe finii in mar?”.
Angelo ed io, in simultanea, ci accostammo, allora, al limite della strada e allungando il collo come due galli da combattimento, cercammo di capire dove e fino a dove l’auto fantasma avrebbe potuto essersi infilata. Ma il buio rimase buio; il mare: lontano e il silenzio, attorno a noi, ritornò ad essere assoluto! Poi, improvvisamente, quasi come il canto di una sirena, si sentì provenire dal fondo del dirupo un: “Ooooohhhhhhhhhhh”, che ci fece immediatamente capire che le mie supposizioni erano esatte e che Angelo aveva finalmente trovato qualcuno al quale far addebitare il danno che aveva causato alla nostra vettura.
“Ooooohhhhhhh”, fu la nostra risposta, urlata come fossimo stati dei lupi in adorazione della luna. Lo scambio in lingua internazionale durò per un bel po’, finché, all’ennesimo ululato di Angelo, confusa dal vento e dallo stormire delle foglie ci venne lanciato questo messaggio: “Nous sons ….dans….le… me….”.
”Oh Signor”, sbottò, allora, il Capo. “I xe anca stranieri!”. Dimostrandosi più seccato che stupito. “Sghe, parlaghe ti che te sa le lingue!”. Scaricando di fatto, sul sempre disponibile navigatore, l’onere di condurre quella strana trattativa diplomatica.
“Where are you…Wo sind Sie… Ou es – tu???”. Spronato dal Capo, allora diedi sfogo a tutta la mia cultura linguistica, più per esibizionismo che per reale necessità, felici entrambi di aver quantomeno compreso che i due piloti erano salvi e dovevano essere solamente recuperati. “Nous sons dans le mer…”, fu l’immediata risposta.
“Capo…non ho capito molto bene…”, risposi io nel duplice ruolo di naviga traduttore. “Questi due, secondo me, o sono finiti in mare oppure sono nella merda… non riesco a capire bene l’ultima parola… mi manca una d di conferma”, conclusi, soddisfatto della mia personale interpretazione del messaggio.
“No, no, Max te ga capio perfettamente: qua no xe question de erre o de di! Questi i xe proprio sia in mar che nella merda, a prescindere”. Sentenziò definitivamente il Capo, dando vita ad una nuova metodologia di traduzione linguistica. I due ci misero circa un quarto d’ora a risalire il ripido pendio. Prima apparve il manico di un ombrello usato a mo’ di rampino, poi una mano, poi la prima testa, poi altre due mani e la seconda testa.
“Bon Soir!”. Ci dissero educatamente, ancora con mezzo corpo immerso nei rovi. ”Je m’appelle Gardavot“, concluse ansimando il francese, porgendoci la mano libera, in cerca d’aiuto. Quella sera non firmammo alcuna constatazione amichevole, anzi ci prodigammo per riportare i francesi in hotel, rinchiusi naturalmente tra l’intreccio del roll-bar e il manico del loro separabile ombrello. Non parlarono per tutto il resto del tragitto, anche perché il Capo, minimamente scosso dall’ l’accaduto decise di continuare imperterrito il nostro programma di lavoro. Così, se dopo l’uscita di strada i due erano rimasti leggermente traumatizzati, quando li scaricammo a notte fonda all’ingresso dell’hotel, sulle loro facce trasparivano solo evidenti segni non di stanchezza, ma di terrore totale.
Il giorno dopo, mentre ci crogiolavamo in piscina e i due piloti d’oltralpe, rimasti probabilmente poco entusiasti della trasferta isolana si imbarcavano sul traghetto per rientrare in Francia, i nostri fedeli fans motorizzati ci vennero a raccontare che era servito un carro attrezzi con la gru ed un rotolo di corde e di cavi d’acciaio lungo 88 metri per recuperare l’auto dalla fossa delle Marianne. I due francesini li incontrammo nuovamente al termine della stagione al Sanremo e, prima ancora che ci stringessimo la mano in segno di saluto, il navigatore esordì con queste parole: “Dove prove voi, questa sera?”. “La Ronde” gli risposi… “Facciamo 4 passaggi sulla Ronde!”: la prova più lunga, impegnativa e difficile di tutto il Sanremo.