Andrea Curami: l’eclettico con i rally nel sangue
La grande passione di Andrea erano i motori, soprattutto quelli d’epoca. Negli anni settanta divenne collaboratore regolare di “Aerofan”, la rivista di Giorgio Apostolo dedicata all’aviazione, con studi tecnici sugli aerei dei primi decenni del Novecento. Un interesse che lo spinse a dare vita insieme ad altri soci nel 1995 a una piccola azienda, l’Area, con sede a Venegono in provincia di Varese, che ricuperava vecchi aerei e li restaurava per musei italiani e stranieri. Si occupava inoltre di auto d’epoca, come socio di club di auto storiche e come commissario tecnico di rally.
Andrea Curami nasce a Milano, il 23 giugno 1947, in una famiglia della grande borghesia lombarda, il padre ingegnere era dirigente della Edison al più alto livello. Il nonno materno, ingegnere, collaborò con la Pirelli allo studio e al posizionamento dei primi cavi sottomarini, mentre lo zio paterno, anch’egli ingegnere, lavorò alla realizzazione della Gardesana. Andrea studia a Milano, dove nel 1966 consegue la maturità classica presso il Liceo Manzoni, è anche un buon giocatore di basket nelle squadre giovanili della Pallacanestro Varese. Nel 1971 si laurea in Ingegneria meccanica, con specializzazione in costruzioni automobilistiche, presso il Politecnico di Milano. Poi compie il servizio militare, nel 1972 è sottotenente di artiglieria di complemento presso il Reggimento di batterie a cavallo di Milano.
Nel 1973 entra nell’Istituto di Meccanica e costruzione delle macchine del Politecnico di Milano come borsista, nel 1974 diventa ricercatore, nel 1984 professore associato di Meccanica applicata nello stesso Istituto. Nel 1975 sposa Maria Cristina Fedrigoni, nel 1977 nasce la figlia Marianna, che nel 2003 si laurea in Ingegneria biomedica presso il Politecnico di Milano. È la quarta generazione di ingegneri della famiglia. Nel 2009 arriva la molto amata nipotina Ginevra. Andrea muore il 24 giugno 2010, prima della nascita del secondo nipotino Leone.
Non è questo il luogo per ripercorrere il fedele e appassionato impegno di Andrea come docente del Politecnico, i tanti corsi di Meccanica applicata di diversa denominazione che tenne a Milano e nelle sedi di Brescia e Lecco, la breve parentesi dei suoi corsi a Roma, presso l’Università di Tor Vergata, i più recenti corsi di Storia dei trasporti tenuti sempre al Politecnico di Milano, una materia a cui teneva anche per offrire agli studenti del Politecnico un corso non di ingegneria, ma un approfondimento sulla storia dell’economia e della tecnologia, del contesto cioè nel quale i giovani laureati avrebbero poi svolto il proprio lavoro. L’attività di docente di Andrea verrà ricordata dai suoi colleghi di Facoltà nel convegno che gli verrà dedicato presso il Politecnico nell’autunno 2011, con il concorso degli amici e collaboratori dei molti versanti del suo impegno.
La grande passione di Andrea erano i motori, soprattutto quelli d’epoca. Negli anni settanta divenne collaboratore regolare di “Aerofan”, la rivista di Giorgio Apostolo dedicata all’aviazione, con studi tecnici sugli aerei dei primi decenni del Novecento. Un interesse che lo spinse a dare vita insieme ad altri soci nel 1995 a una piccola azienda, l’Area, con sede a Venegono in provincia di Varese, che ricuperava vecchi aerei e li restaurava per musei italiani e stranieri. Si occupava inoltre di auto d’epoca, come socio di club di auto storiche e come commissario tecnico di rally. Fu tra i promotori di una nuova edizione della classica “Mille Miglia” e per alcuni anni commissario tecnico per le gare di Formula Uno a Monza, troppo severo e indipendente per conservare l’incarico a lungo. In anni più recenti fu attivo collaboratore dell’Associazione italiana per la storia dell’automobilismo di Lorenzo Boscarelli e partecipò alla realizzazione della parte storica del Museo delle Mille Miglia che venne inaugurato a Brescia nel novembre 2004.
Già da queste brevi note risulta con quale vivacità di interessi Andrea interpretasse il suo ruolo di ricercatore di Meccanica applicata, un’attenzione rivolta alle macchine del passato anziché agli sviluppi di una ricerca proiettata verso il futuro, in simbiosi con le esigenze dell’industria più avanzata, che era l’obiettivo principale del suo Istituto. Negli anni Ottanta Andrea mise da parte le sue ambizioni di carriera all’interno dell’Istituto di Meccanica e ampliò i suoi interessi di ricerca, non più soltanto lo studio tecnico delle macchine d’epoca, ma anche l’attenzione all’impiego di aerei e carri armati e all’industria che li produceva. Divenne uno dei migliori e più innovativi studiosi della storia degli armamenti dell’esercito e dell’aeronautica del ventennio fascista e dell’industria bellica nazionale. E appunto a questo versante della sua attività intendiamo dedicare qualche più precisa considerazione.
Prima di affrontare alcuni aspetti del suo contributo agli studi sull’Italia contemporanea, occorre però sottolineare due aspetti del suo carattere e del suo modo di affrontare gli studi. Andrea era anzitutto una persona mossa da una grande curiosità e passione per il suo lavoro, che lo spingeva ad allargare di continuo il suo orizzonte problematico, a partire, come si è detto, dallo studio dei motori e dei mezzi dal punto di vista storico e dei progettisti che li avevano realizzati. La sua formazione culturale, non limitata all’ingegneria e alla tecnologia, lo portava a considerare anche i problemi tecnici e industriali e le scelte compiute in questi ambiti in rapporto alle molteplici influenze esterne di tipo economico e politico. Non a caso spesso sottolineava anche l’importanza dello studio del quadro normativo in cui le diverse attività erano svolte, come risulta tra l’altro evidente dall’impostazione dei suoi corsi di Storia dei trasporti e dal volume nato dal a quell’esperienza. Un primo riflesso di questi interessi fu, oltre alla ricordata collaborazione con “Aerofan” e in generale a studi su aspetti particolari della storia degli armamenti italiani, l’avvio di un’ampia raccolta di libri e documenti, in una prospettiva non collezionistica, ma come sviluppo dell’interesse per la storia delle vicende belliche italiane dall’Unità alla seconda guerra mondiale.
Una raccolta attorno a un nucleo centrale di interessi – le vicende economiche e militari – e allargata a diverse tipologie di fonti: a stampa, ma soprattutto d’archivio, comprese quelle fotografiche, che raccoglieva ed esaminava anche senza un immediato fine, in vista di successivi lavori ma anche per il gusto di capire problemi e questioni e di cogliere nuovi spunti dalla documentazione.
Questa passione spiega almeno in parte come gli interessasse relativamente poco dare risalto ai propri lavori, e come fosse disponibile a collaborazioni in più direzioni ogni volta che ciò rappresentasse l’occasione per pensare e scrivere qualcosa di nuovo. Il secondo aspetto a cui facevamo riferimento era un altro tratto piuttosto raro, e cioè la generosità nei confronti di studiosi e soprattutto di molti, di una generazione più giovane, ai quali ha insegnato con costante disponibilità, disponibilità di suggerimenti, di documenti tratti dalle sue ricerche, di coinvolgimento in progetti. Anche per questo non gli dispiaceva firmare lavori insieme ad altri, una scelta non consueta in campo storico rispetto ad altre discipline, l’espressione di una lavoro in comune, del maestro che si siede tra i suoi allievi, per spingerli a dare il meglio, e insieme della disponibilità a confrontare le proprie conoscenze e prospettive di studio – Andrea si considerava anzitutto un ingegnere – con quelle di persone di diversa formazione.
Il suo contributo agli studi storici non deriva semplicemente dall’aver applicato agli studi storici conoscenze proprie di un altro ambito disciplinare (una prospettiva spesso molto feconda), ma dall’aver proposto una lettura originale dei rapporti tra industria bellica e Stato dall’età liberale al fascismo, e cioè di una questione centrale sia rispetto al processo di industrializzazione del paese, sia alle vicende belliche. Come si è detto, al centro degli interessi di Andrea vi è sempre stata la raccolta di nuove fonti e la storia dell’aeronautica italiana, per cui possiamo iniziare il discorso da una pubblicazione che riflette questa prospettiva e che si colloca a cavallo tra storia militare e storia della tecnologia. Si tratta del progetto di pubblicazione degli scritti di Giulio Douhet, che purtroppo è stato interrotto, non per volontà degli autori, dopo il primo volume. Il periodo considerato, che si chiude con l’entrata del paese in guerra, fa parte di una fase in cui di fronte a un’industria, quella aeronautica, ancora debole e che sta affrontando il passaggio da una dimensione artigianale a una dimensione propriamente industriale, raggiunta soltanto con la Grande guerra, le iniziative delle forze armate possono avere un ruolo decisivo nell’orientare le scelte dei privati. Certo anche in questa fase emergono, come negli altri periodi, i tentativi dei privati di approfittare, senza adeguate capacità tecniche e industriali, della volontà pubblica di sviluppare un determinato tipo di armamenti o di approfittare delle crisi belliche, quando l’urgenza e il livello della domanda pubblica aggravano la debolezza della committenza nei confronti dei privati. Ma è un rapporto di forze che vede ancora la capacità delle forze armate e dello Stato di orientare le scelte dei privati e di reagire alle loro eccessive pretese.
All’aeronautica Andrea aveva dedicato i primi lavori, continuando poi a proporre contributi originali. A lui si deve tra l’altro il merito di aver rilanciato gli studi sulla Grande guerra: nonostante i moltissimi lavori sul primo conflitto mondiale, a inizi anni novanta i lavori storici disponibili sul ruolo dell’aviazione risalivano praticamente agli anni trenta. Il libro dedicato a La grande guerra aerea rappresentò un contributo innovativo anche per la gamma di temi che Andrea aveva voluto fossero trattati, da quelli più “tradizionali” di storia militare (gli scontri aerei, gli “assi”, l’organizzazione delle forze aeree), ad altri sui quali mancavano del tutto o quasi studi, quali i bombardamenti e l’industria bellica (nei suoi aspetti economici e tecnologici), che Andrea aveva voluto fosse trattata non soltanto per il versante italiano, ma anche per quello austro-ungarico e tedesco. In generale, poi, i contributi sulle origini dell’industria aeronautica hanno fatto emergere un mosaico di aziende e iniziative artigianali che cercarono di inserirsi in un settore nuovo in cui si affiancavano innovazione, realizzazione su progetti stranieri e velleità fragili sotto il profilo sia tecnico sia produttivo ma ben intenzionate a sfruttare l’occasione di entrare a far parte dei fornitori delle forze armate.
Con la Grande guerra emergono caratteri destinati a caratterizzare a lungo il rapporto tra pubblico e privato nell’industria bellica (ma non soltanto in quella: il successivo interesse per la storia dei trasporti investe un altro settore in cui l’intervento pubblico è costitutivo rispetto alla crescita industriale). I molti saggi danno infatti conto di una realtà sfaccettata e non riassumibile in una formula semplificatoria. Da un lato fatta di innovazione (per quanto riguarda la gamma degli armamenti, la capacità di affrontare un’emergenza bellica non prevista sotto il profilo istituzionale come su quello industriale, dopo un momento iniziale di profonda crisi), e dall’altro di riemersione di vizi non nuovi di privati, grandi e piccoli, pronti a sfruttare al meglio l’eccezionale congiuntura. Non amando i discorsi generici, il discorso viene sempre condotto sulla base di precisi esempi e di dati, anche grazie al fatto che la stessa Italia liberale, nel suo crepuscolo, cercò, con la Commissione parlamentare per le spese di guerra, un antidoto all’affarismo e alla corruzione che avevano investito la Mobilitazione industriale durante il conflitto (si veda, nelle pagine che seguono, L’industria bellica italiana dopo Caporetto). Una reazione significativa di quel particolare contesto politico-istituzionale (com’è noto, Mussolini appena giunge al potere chiude i lavori della Commissione prima che tocchino interessi che lo sostengono: non è più tempo di parlare di “sovraprofitti di guerra”), ma anche di più generale passaggio, da un assetto politico-economico in cui l’industria è una delle componenti delle classi dirigenti italiane, a uno in cui alcuni settori della grande industria si collocano al centro delle scelte pubbliche e spesso le determinano direttamente.
In questo senso la prima guerra mondiale rappresenta uno spartiacque, non soltanto perché con il fascismo tutto il mondo delle forniture pubbliche viene sottratto a ogni istanza di pubblicità e di controllo, e all’interesse pubblico si sovrappone quello del partito, ma perché diviene sempre più forte la capacità dell’industria di condizionare sia le forze armate sia la politica, nonostante l’apparente forza del regime. Se nell’Ottocento i militari, pur soggetti a condizionamenti e influenze, avevano la percezione di rappresentare una componente fondamentale del nuovo Stato, un potere superiore a quello di ogni singolo privato, con il fascismo il rapporto è ormai rovesciato, e sono i privati a imporre le proprie esigenze a uno Stato dittatoriale nei confronti degli oppositori, ma debole verso gli interessi privati più forti che lo sostengono. Sono i noti studi sulla meccanizzazione dell’esercito, condotti insieme a Lucio Ceva, ad aver affrontato in maniera ampia e sulla base di una ricca e originale documentazione questo tema, e ad aver in questo modo fornito un contributo non legato meramente alla storia militare, ma che fornisce un tassello essenziale per capire il sistema di potere fascista dagli anni trenta alla seconda guerra mondiale. Se è impossibile riassumere la ricchezza di queste ricerche, occorre comunque dedicare a questi lavori qualche altra considerazione.
Soffermiamoci sul primo di questi studi, penalizzato da un titolo non allettante e da un editore che resta purtroppo a circolazione limitata, e che quindi è, crediamo, più noto agli studiosi di storia militare che a chi si occupa in generale di storia del fascismo. Il lavoro è significativo della prospettiva più generale di studio di Andrea e del suo apporto originale. Esisteva infatti una vastissima bibliografia sui mezzi militari italiani e in particolare sui carri armati, bibliografia che ogni anno si arricchisce di nuovi titoli che ne illustrano nel dettaglio le caratteristiche, tanto che possiamo dire di sapere in pratica tutto su caratteristiche e vicende operative dei carri armati italiani. La novità del lavoro di Ceva e Curami è di porre al centro la ricostruzione dei rapporti tra lo Stato e le forze armate da un lato, e la grande industria italiana dall’altro, analizzando un settore nel quale nasce e si afferma uno “strano” duopolio (tra un’azienda privata produttrice dei motori, la Fiat, e una pubblica che realizza gli scafi, l’Ansaldo) che condiziona tutta la produzione bellica dagli anni trenta fino al secondo conflitto mondiale. Attraverso un’ampia analisi che riguarda la progettazione, le caratteristiche dei mezzi, la loro rispondenza alle necessità belliche, il confronto con le realizzazioni degli altri paesi in guerra, gli autori spiegano così l’arretratezza italiana nella produzione di uno dei mezzi fondamentali, su tutti i fronti, della seconda guerra mondiale, il carro armato, riconducendola alla capacità dei privati di condizionare le scelte pubbliche, cioè di imporre mezzi obsoleti e inadeguati al conflitto in corso a uno Stato e a forze armate spesso ben consapevoli (anche prima che i mezzi fossero utilizzati in guerra e quindi dovessero confrontarsi con quelli degli altri belligeranti) di tale inadeguatezza.
E in questi lavori che emerge come l’analisi tecnica possa divenire lo strumento per comprendere le politiche seguite dalle imprese, in quanto la mancanza di innovazione rappresenta il risultato di scelte precise, volte a massimizzare il vantaggio aziendale immediato piuttosto che impegnare le imprese in onerosi programmi di sviluppo e innovazione, pur alla loro portata. In questo modo l’analisi tecnologica e industriale permette di comprendere l’origine dell’arretratezza degli armamenti a disposizione delle forze armate italiane, arretratezza non legata genericamente al livello dell’industria nazionale, ma risultato del rapporto di forze e di alleanza che si stabilisce tra regime fascista e grande industria.
Questi due lavori rappresentano un modello di analisi che lo stesso Curami ha esteso ad altri settori degli armamenti, a partire da quello aeronautico, dove risulta impossibile concentrare le risorse sulla produzione dei migliori modelli, e che appare particolarmente convincente per la comprensione delle gravi lacune con le quali l’Italia affrontò il secondo conflitto mondiale. In questo e in altri lavori, Curami confuta una serie di tesi a lungo ripetute dalla storiografia per spiegare il basso livello qualitativo e quantitativo degli armamenti, dalla scarsità di materie prime addotta dal generale Favagrossa, uno dei massimi responsabili della preparazione bellica italiana, alla relativa arretratezza, come si è detto, dell’industria nazionale nel suo complesso. Se infatti il potenziale industriale italiano non poteva che avere un ruolo marginale nel secondo conflitto mondiale, la valutazione degli armamenti muove dalla convinzione che l’industria italiana, che dall’inizio del secolo aveva raggiunto anche risultati internazionali di rilievo, avesse comunque le capacità di realizzare armamenti più o meno al livello di quelli dei maggiori paesi (si veda, in queste pagine, il saggio su Tecnologia e modelli di armamento) e che tale risultato non fu conseguito perché le maggiori industrie preferirono continuare a riproporre modelli inadeguati (rifiutandosi anche di riprodurre i modelli dell’alleato tedesco), senza incorrere nei rischi e negli oneri dell’innovazione, e potendo a questo fine sfruttare la propria posizione nel sistema di potere fascista. Una situazione che suscitò spesso l’aspra quanto inefficace opposizione del mondo militare, e che può essere esemplificata nel fatto che, fino all’8 settembre 1943, l’esercito italiano non poté disporre di un carro armato pesante – ne era stato prodotto soltanto un prototipo – e che la volontà di enfatizzare il progressivo allontanamento dal fascismo e il sostegno al movimento di liberazione nella fase declinante del fascismo, piuttosto che la collaborazione con l’occupante.
Anche questo saggio va segnalato per il ricorso a un’ampia ed eterogenea documentazione, che permette di ricostruire, accanto a quello delle grandi imprese, il ruolo di un significativo numero di piccole e medie aziende che diedero un contributo di rilievo alla guerra combattuta dalle forze armate tedesche, che furono così in grado di rendersi relativamente autonome rispetto all’importazione di armamenti ed equipaggiamenti dalla Germania. Un risultato ottenuto grazie al decentramento, rispetto alle grandi città industriali, di parte della produzione, e che sottolinea l’interesse che il sistema produttivo italiano aveva per la Germania, sia per lo scopo indicato di rendere il più possibile autonomo il Gruppo di armate B, sia per sviluppare la produzione di componenti destinate anche agli armamenti previsti per altri scacchieri. La produzione bellica nella Rsi finì così per assumere una morfologia differenziava che ne ostacolò una corretta visione d’insieme: accanto a produzioni relativamente inutili o comunque di materiali obsoleti, realizzati principalmente al fine di impiegare le maestranze e contenere il malcontento e l’opposizione, vi furono un impegno costante a rifornire le forze armate tedesche e produzioni d’avanguardia. Esula dai fini di queste note e dalla competenza di chi scrive considerare i lavori legati al mondo dell’auto e dei motori, ai quali Andrea ha dedicato diverse monografie pubblicate dall’editore Nada, che si affiancano alla collaborazione a riviste di settore, come “La Manovella” e (quale condirettore) “La Manovella e ruote a raggi”. Interessi ai quali si lega quello citato relativo alla storia dei trasporti.
Per quanto riguarda la storia dell’industria bellica, Andrea ha dunque contribuito, direttamente e per il suo sostegno a molte ricerche, più che a sviluppare un settore di studi, a rifondarlo secondo nuove prospettive problematiche e conseguendo risultati dai quali non può che partire ogni nuova indagine. Si tratta, nel complesso, come abbiamo cercato di dire, di uno dei più originali contributi allo studio delle guerre combattute dall’Italia unita. Ma dobbiamo aggiungere che queste pagine non possono che restituire in maniera parziale la ricchezza delle ricerche condotte da Andrea, tanta è l’ampiezza di risultati, ma anche le annotazioni e i suggerimenti che si possono ricavare dalla lettura dei suoi lavori. Molte dunque le indicazioni di nuovi percorsi di ricerca, da ultimo quello relativo alle armi portatili, proposto nel corso del convegno di studi del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico-militari con la collaborazione della Fondazione Micheletti di Brescia. Proprio per questo è nostra intenzione realizzare una bibliografia completa degli scritti, sparsi in molte riviste appartenenti a settori disciplinari diversi.
Va anche detto che, a nostro parere, le critiche alle forze armate e soprattutto alle arretratezze e alle spregiudicatezze dell’industria bellica italiana non nascevano da una prospettiva antimilitarista, essendo il mondo militare un mondo che suscitava il suo costante interesse e sul quale semplicemente, poiché gli veniva naturale, esercitava il suo acuto e spesso ironico e divertito sguardo critico. La sua decisione di scrivere sui temi dell’industria bellica nacque infatti anche dalle discussioni originate dal disaccordo rispetto ad alcune tesi formulate appunto sulle forze armate italiane da Giorgio Rochat, critico di molte scelte e vicende nazionali, poi divenuto suo amico. Semmai, volendo azzardare un paragone, le sue critiche alle forze armate e all’industria nascevano da una prospettiva simile a quella di Carlo Emilio Gadda, un ingegnere che visse la Grande guerra anche constatando la pochezza e i limiti di un Paese che avrebbe voluto migliore.